domenica 4 novembre 2018

La poesia del corpo. Scritto da Filippo Ongaro.

filippo-ongaroCosa vedete quando guar­date il vostro corpo allo spec­chio? Quale impres­sione vi dà la vostra imma­gine riflessa? Di bel­lezza, armo­nia e gioia? Oppure di disprezzo, delu­sione e fru­stra­zione? Evi­tate di guar­darvi o accet­tate con gra­zia pregi e difetti di ciò che state osservando?
Spesso ci dimen­ti­chiamo che il corpo è la mani­fe­sta­zione tan­gi­bile e con­creta della nostra esi­stenza e che il rap­porto che abbiamo con esso deter­mina in larga misura la rela­zione che abbiamo con noi stessi e, in senso lato, con la vita e con gli altri. Avere un corpo in forma, voler rea­liz­zare un pro­prio con­cetto di bel­lezza non sono cer­ta­mente obbli­ghi ma oppor­tu­nità per crearsi una vita più com­pleta e appagante.
In fondo, il modo in cui trat­tiamo il nostro corpo rap­pre­senta la cura e l’amore che riser­viamo a noi stessi e alla nostra esi­stenza. Trat­tarlo male, abu­sarne, intos­si­carlo fino a ren­derlo una brutta copia di ciò che poteva essere o anche più sem­pli­ce­mente tra­scu­rarlo, è prima di tutto una pro­fonda man­canza di rispetto nei con­fronti pro­pri e della vita stessa. È banale e sem­pli­ci­stico rite­nere che la cura del corpo sia sem­pre un atto di pura vanità o addi­rit­tura di nar­ci­si­smo. Può ovvia­mente esserlo, se mal ripo­sta, ma può al con­tra­rio anche rap­pre­sen­tare un feno­me­nale vei­colo per lo svi­luppo di una ver­sione più forte e più pro­fonda di se stessi.
Che siate o meno cre­denti, che pen­siate che ci sia un’anima e una vita eterna, rimane sem­pre il corpo la dimora dei vostri sen­ti­menti e della vostra realtà nella vita ter­rena. È attra­verso que­sto corpo che per­ce­piamo pia­cere e dolore, caldo e freddo, che inte­ra­giamo con gli altri e con il mondo, che spe­ri­men­tiamo il bello e il brutto, il buono e il cat­tivo, il dolce e l’amaro della vita. Il corpo può essere un invo­lu­cro che igno­riamo e tra­scu­riamo, può essere un far­dello di pro­blemi che ci tra­sci­niamo die­tro, può essere per­fino la val­vola di sfogo della nostra rab­bia e dei nostri errori oppure può essere la mani­fe­sta­zione della nostra armo­nia e bel­lezza inte­riori. Dipende dalle nostre scelte.
Del corpo molto spesso ci dimen­ti­chiamo, diamo per scon­tata la sua pre­senza ma quando poi ci abban­dona ci stu­piamo e ci sen­tiamo tra­diti. Allora affer­miamo di aver perso la salute ma in verità abbiamo perso prima di tutto noi stessi. Infatti, è attra­verso il corpo che si deter­mi­nano la nostra iden­tità, il modo in cui vediamo noi stessi nel corso della vita e molto di come ci vedono gli altri.
Il corpo può essere anche la pale­stra attra­verso cui costruiamo qual­cosa di più pro­fondo come il carat­tere, la per­so­na­lità e un certo tipo di visione della vita. Gli anti­chi greci soste­ne­vano che i gym­na­sia,ossia gli eser­cizi per il corpo, andas­sero sem­pre accop­piati ai melete, eser­cizi di medi­ta­zione, in modo da poter svi­lup­pare una sim­biosi per­fetta tra corpo e mente, tra carne e spi­rito, come rap­pre­sen­tato dalle figure eroi­che che hanno riem­pito la cul­tura di quell’epoca.
Del resto nella cul­tura greca prima e romana poi, l’eroe non era qual­cosa di astratto ma un modello fon­da­men­tale per la vita quo­ti­diana. Indi­cava ai cit­ta­dini quale dovesse essere l’ideale a cui ten­dere, un uomo prov­vi­sto di un equi­li­brio per­fetto di qua­lità morali, intel­let­tuali e fisi­che, tra cui la forza e la prestanza.
Pro­prio que­ste ultime erano con­si­de­rate armi essen­ziali dell’eroe, carat­te­ri­sti­che che lo aiu­ta­vano a por­tare a ter­mine il suo atto di corag­gio per il bene col­let­tivo, arri­vando anche a sacri­fi­care se stesso.
Con il pas­sare dei secoli que­sti pen­sieri si sono persi per lasciare spa­zio ad altre visioni. Il rap­porto tra mente e corpo è stato scisso per como­dità della scienza. Il ruolo del corpo come dono da pre­ser­vare è stato sosti­tuito da quello di un insieme peri­co­loso di istinti da repri­mere e tenere a bada. Il modello da seguire è diven­tato quello dell’obbedienza e della con­for­ma­zione alle regole sociali e non più quello dell’eroe capace di tra­sfor­mare la realtà pro­pria e quella collettiva.
Ma ognuno di noi rimane libero di lavo­rare sul pro­prio corpo per dare vita ad una poe­sia che lo accom­pa­gnerà nelle varie fasi della vita. E come ogni poe­sia, anche que­sta avrà alcuni lati felici e altri tri­sti, ma ciò che conta dav­vero è cogliere l’opportunità di inna­mo­rarsi della scelta fatta e del pro­cesso avviato. Lo sforzo conta più del risul­tato e il per­corso più del luogo rag­giunto. Per­ché è pro­prio il per­cor­rere la via e l’affrontare lo sforzo ciò che defi­ni­sce la nostra iden­tità e ci tra­sforma in pic­coli eroi che apprez­zano la virtù della durata e della pazienza piut­to­sto che l’eccitazione del risul­tato facile o la fru­stra­zione della rinun­cia a priori.
È pro­prio attra­verso la capa­cità di affron­tare il nostro per­corso per­so­nale che si costrui­sce la sen­sa­zione di vivere la vita invece che sem­pli­ce­mente di lasciare scor­rere il tempo. Si resta fedeli prima di tutto a se stessi, ci si muove lungo gli anni della vita con cau­tela e atten­zione per i det­ta­gli, mesco­lando disci­plina e accet­ta­zione per i pro­pri difetti, durezza e tenerezza.
Un po’ come scrisse nella cele­bre pre­ghiera della sere­nità Il teo­logo pro­te­stante Rei­n­hold Nie­buhr: “Dio, con­ce­dimi la sere­nità di accet­tare le cose che non posso cam­biare, il corag­gio di cam­biare le cose che posso, e la sag­gezza per cono­scerne la differenza”.
Che siate cre­denti o meno que­sta pre­ghiera rac­chiude tre parole chiave per un’esistenza serena: accet­ta­zione, corag­gio, sag­gezza.
Ecco per­ché non nascondo la mia cura per il corpo o addi­rit­tura, agli occhi di alcuni, sem­bro osten­tarla. Non per­ché credo di essere meglio di altri né per­ché con­si­dero finito il mio per­corso, tutt’altro. Ma solo per­ché penso di poter sti­mo­lare altre per­sone a pren­dere in mano la pro­pria vita come ho fatto io, senza paura ma sem­pli­ce­mente con molta accet­ta­zione, un po’ di corag­gio e magari prima o poi anche un piz­zico di sag­gezza. Una volta fatta la scelta, ognuno di noi può diven­tare a modo suo un esem­pio per gli altri.
Certo non mi dimen­tico che un giorno, prima o poi, tutti noi mori­remo e lasce­remo que­sto corpo al suo destino. Ma al con­tra­rio di quanto si possa pen­sare, è pro­prio que­sta tran­si­to­rietà della nostra esi­stenza lo sti­molo più pro­fondo per lavo­rare su noi stessi: non abbiamo un’eternità per pro­vare a costruire il nostro pic­colo capo­la­voro.

Tratto dal sito www.filippo-ongaro.it

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