domenica 3 febbraio 2013

Firenze 2007. La prima Maratona di Ottavio Piselli.

Entro all’Expo’ Marathon di Firenze 2007 mentre la prime gocce cadono dal grigio cielo toscano. L’improvvisa folata di vento stacca all’unisono le gialle foglie di un triste albero autunnale e tanti immaginari paracadute le accompagnano dolcemente al suolo.
La consapevolezza di essere arrivati al dunque è giunta in quel momento. In cascata sono affluiti i ricordi dell’estate, il primo allenamento di agosto in preparazione della mia prima maratona, senza ancora sapere quale, NY, Firenze, Milano, Roma, il caldo afoso delle 7 di sera, sul lungomare Poetto tra le famiglie sporche di sabbia che si ritirano lasciando il campo ai tanti in scarpette da corsa, l’umido di settembre che accompagna noi runnes sulla pista ciclabile, il freddo vento di maestrale di novembre e lo scirocco che si alternano spazzando il litorale e facendo volare le gambe, attrici e non semplici comparse, quando spinge pietoso alle spalle.
Il cuore batte a mille, come la notte precedente quando Morfeo mi ha concesso solo due ore di sonno, dalle 2 alle 4, breve pausa tra mille pensieri. Alle 6 la partenza da Cagliari e dopo tre ore sono tra gli stands, i promoter, il test sulla pianta del piede che si conclude con la diagnosi di aver sbagliato in pieno il tipo di scarpe, e poi “piacere, Fulvio Massini”, guarda c’è anche Elisabetta Caporale che intervista chissà chi con la tuta della nazionale italiana, ma io non li conosco e loro non conoscono me, ma entrambi siamo lì per la stessa malattia, come gli oltre 7000 iscritti, francesi, finlandesi, austriaci, tedeschi, spagnoli…
Pomeriggio, piccolo giro in città, di dovere in quanto Firenze è Firenze, la Messa, un piatto di spaghetti aglio e olio superpiccanti e poi a nanna, speriamo si dorma.
Sveglia puntata alle 6.45, ma alle 6 sono già in piedi, streching per scaricare la tensione, colazione secondo quanto programmato nei mesi precedenti, la vestizione, il momento del fissaggio del pettorale, tutto si svolge secondo un dejavù che è scritto nella mia mente.
Quattro passi per raggiungere il Lungarno della Zecca e trovo quelli come me, stessa faccia stessa razza, uno sciame di api con la stessa pettina scaccia pioggia giallo-nera trovata nel pacco gara. L’odore di canfora aleggia nell’aria e mi trovo su un autobus diretto ad un piazzale conosciuto circa trent’anni fa durante la gita dell’ultimo anno del liceo. C’è la stessa statua che guarda verso l’alto e punta il dito chissà dove, ma il popolo degli invasori questa volta non è costituito da studenti, ma da centinaia, migliaia di persone felici, ebbre ed eccitate.
Dalla sardegna con furore, e mi trovo a parlare in quella ressa con una ragazza nuorese, due cagliaritani, un quartese che abita a meno di duecento metri da cassa mia e qualche asseminese. Tra i go e i vamos si sente anche il classico ajò.
E allora ajò, pronti via, speriamo di arrivare fino in fondo, al diavolo il tempo, addio felpa fedele ti lascio a Firenze a scaldare qualche brav’uomo, inizia la discesa, i consigli di F. Massini dal suo sito sono preziosi, vai piano e risparmia le gambe, i palloncini delle 4 ore e 15, non farteli scappare, fine della discesa con un pubblico da brividi ai lati, sono emozionato e le lacrime salgono, salgono, no! Non sprecare l’adrenalina ora e ricacciale dentro. Ma è dura farlo con i cartelli che incitano in tutte le lingue del mondo, con gli atleti della National Aids Marathon Training felici al tuo fianco, you are heroes, i disabili delle categorie Handbike, Carrozzina Paraplegici e Tetraplegici e i Non Vedenti che meritano i maggiori tributi per la capacità e la forza che possiedono e che trasferiscono agli altri.
Centro storico, dalle finestre gli incitamenti continui e gli applausi dei fiorentini che riscaldano il cuore più del thè offerto ai ristori, l’odore del pane caldo, i primi integratori.
Il ginocchio si sveglia al 13° km, dopo palazzo Pitti, ed ecco i temuti dolori leniti qualche settimana fa da due serie di trattamenti laser, ma è tutto previsto, giù l’aulin e stringi i denti. Alla mezza a 1 e 58’, vuol dire meno di 4 ore sui 42, sto sbagliano tutto, non è secondo tabella e infatti ho raggiunto i palloncini viola dei pacers delle 4 ore, ho già perso i primi compagni di avventura. Ma io sto bene e faccio la pazzia di seguirli. I consigli dei pacers sono melodie per le mie orecchie, metto in bagaglio un mucchio di consigli interessanti e quasi mi perdo il passaggio al campanile di Giotto.
È un attimo e inizia il ponticello che porta alle Cascine. Il gruppo deve rimanere unito, così ci dicono, saranno 10 km di sofferenza ma se usciamo dalle Cascine in gruppo è fatta. Il mio cronometro segna un average di 5’30”, rispetto ai 6’ previsti all’inizio per finire la gara.
Pazzo, pazzo che non sono altro, lascia stare l’orologio e fidati di te stesso, pensa ai sacrifici fatti, alle unghie perse, alle sedute laser, al ginocchio malefico, alla pioggia e al buio degli allenamenti, ora sei qui a finalizzare il tuo sogno, quindi se stai bene, vai.
Ci siamo, la crisi dei 30-35 km. Mi avevano avvisato ed ero preparato almeno mentalmente alla sofferenza, intorno a me iniziano a cadere i primi coraggiosi, i primi eroi di questa battaglia, molti compagni di viaggio sono dietro, vorrei aiutarli ma non posso. E io vado, vado senza sforzo, le gambe girano e mulìnano metri, la distanza alla meta si accorcia passo dopo passo, e vedo un fiume umano in controcorrente che si apre davanti a me, sorpasso decine di atleti senza capire che non sono io più veloce ma loro che piano piano stanno cedendo.
Vedo cose che mai avrei pensato di vedere, c’è chi corre abbracciati in tre, quello in mezzo sostenuto dai compagni, chi è a terra tra conati di schiuma di rabbia, chi è fermo e cammina pensando di aver quasi terminato, ma il “quasi” qui non è concesso, le sirene delle ambulanze che risuonano lontane ma non troppo e che prospettano scenari penosi. Io penso alla mia famiglia davanti alla TV, a mia madre e a mia sorella che mi avevano raccomandato “di andare piano e non fare l’eroe”, ma a questo punto non mi ferma più nessuno, sono lanciato e le lacrime salgono di nuovo… ricacciale dentro, non è finita.
Piazza della Signoria, ci siamo, arrivo lo so che arrivo, sento il boato della folla stupenda che ha accompagnato l’esercito dei 14000 piedi per 42 km, mancano gli ultimi 195 metri, i più belli e i più sofferti, voglio arrivare al traguardo e quando vedo dopo l’ultima curva il tappeto vermiglio mi stupisco che sia così breve, un attimo, vedo l’arrivo, vedo il tempo 03:58:40 ufficiale, passo e blocco il cronometro, leggo il display e non capisco la differenza, più tardi scoprirò la bellezza e l’emozione del real-time, 03:56:25.
La balaustra di protezione dopo il traguardo diventa stampella del mio crollo emotivo, non ho più scuse per trattenere il giusto sfogo che si confonde con la pioggerellina che inizia a cadere in piazza del Duomo. Quant’è dolce questa sofferenza, quante volte l’ho desiderata e l’ho rigurgitata dentro,  decine di pacche sulla spalla con fare interrogativo, ma un segno col pollice in alto e la felicita del mio volto tranquillizza tutti.
Ore 20.55, l’airbus Meridiana è pronto al decollo, a bordo tante storie diverse, felicità e rimpianti giocano a nascondino tra le poltrone. Sono esausto, trascino la gamba destra che ha incastonato il ginocchio della discordia, i legamenti mi tirano, avverto il siero delle bolle delle dita del piede sinistro che bagna il calzino, due unghie peste di sangue, non mangio seriamente dalla sera precedente ma non ho fame, sono stanco ma ho ancora la forza di ringraziare il Signore per aver realizzato il mio sogno: sono diventato un maratoneta.
Si aprono le porte all’aeroporto di Elmas, c’è tutta la mia famiglia ad accogliermi e leggo uno striscione: “…e ora a Roma….”
Grazie Firenze

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